
Analizzare un disco death metal significa prima di tutto capire la sua architettura. Dietro i riff fulminei e la velocità dei blast beats, ogni brano è costruito su principi tecnici ben precisi: accordature ribassate, intrecci di palm muting e tremolo picking, strutture asimmetriche e, ovviamente, voci gutturali.
La sua impostazione classica, dunque, è feroce e aggressiva, ma non è un caso trovare, in molti album, alcune tracce o intermezzi che smorzano l’atmosfera per renderla nettamente diversa.
Questo perché, nel death metal, le armonie si basano soprattutto su scale minori e frigie: la minore naturale (Eolio) crea malinconia, il frigio trasmette oscurità, mentre la minore armonica e il frigio dominante aggiungono drammaticità. Nei suoi sottogeneri, queste regole si ampliano o si adattano in base al suono da trasmettere (ad esempio, nel prog death si trovano scale più esotiche, mentre nel brutal death intensificano la dissonanza) ma la loro impostazione rimane pressoché la stessa.
È proprio in questo equilibrio tra tecnica e emozione che nascono alcuni dei momenti più sorprendenti: brani strumentali che, pur immersi in un contesto di brutalità sonora, puntano su malinconia, introspezione e atmosfera, rivelando un lato più profondo e suggestivo del death metal. Di esempi se ne possono trovare tantissimi, ma sono quelli più memorabili che hanno reso questa tendenza diffusa.
Voice of the Soul

Voice of the Soul è senza dubbio il brano più conosciuto di tutti in questa categoria, non solo per essere uno dei pochissimi pezzi strumentali dei Death, ma anche per la sua sinfonia. Ogni disco della band di Chuck Schuldiner è a suo modo un capolavoro, e The Sound of Perseverance è quello dalle più ampie vedute, l’album che ormai mostrava tutto, tranne il death metal puro degli esordi. E soprattutto in questo brano, il cambiamento si nota a dismisura: non c’è batteria, non c’è il growl tagliente che caratterizza l’album, ma solo due chitarre che duettano in un intreccio di arpeggi e melodie in costante equilibrio, creando contrasti morbidi e una forte intensità emotiva. La chitarra solista emerge gradualmente, senza mai essere troppo virtuosa, riuscendo a non prevalere su quella acustica che, da buona base, la sostiene e la segue in ogni attimo fino al finale, in cui si spengono entrambe quasi allo stesso modo. In un album pieno di tracce tecniche, precise, variegate e potenti nell’impostazione, Voice of the Soul si distingue nettamente, mostrando un lato che, fino ad allora, nell’identità dei Death, si era soltanto intravisto.
Into the Dead Sky

Into the Dead Sky è un altro intermezzo dalla funzione e dalla emotività simile. Con Slaughter of the Soul, gli At The Gates realizzarono il manifesto del melodic death metal, in cui i brani dovevano essere potenti, travolgenti, feroci. Di fatti, tracce come Cold, Suicide Nation e World of Lies scorrono forti ed energiche, ma tra di esse si distingue proprio questo interludio strumentale dove la tensione si trasforma in tristezza. Le chitarre acustiche introducono il brano con arpeggi morbidi, su cui si innestano chitarre elettriche dal timbro pulito e riverberato, intrecciandosi in modo semplice ed efficace e creando un’atmosfera contemplativa. Sullo sfondo, il basso lavora con note lunghe e profonde, mentre la batteria contenuta accompagna con tocchi leggeri, limitandosi a scandire i passaggi con una presenza discreta ma espressiva. Verso la fine, l’atmosfera cambia, diventa leggermente più tesa, ma non si appesantisce, chiudendo il brano con un alone di mistero, ma mantenendosi sempre introspettivo. Non si tratta dell’unico interludio strumentale dell’album, ma la conclusiva The Flames of the End è completamente diversa da Into the Dead Sky che, tra le due, è senza dubbio la più epica.
Desolate Ways

In Blessed Are the Sick ci sono quattro tracce strumentali (tre se si considera l’intro un tutt’uno con Fall from Grace) e Desolate Ways è quella più memorabile. In un disco così furioso, i Morbid Angel decisero di immettere una traccia totalmente anomala per interrompere l’atmosfera maligna con un momento di pura malinconia. Composto dal chitarrista Richard Brunelle, il brano si regge interamente sul suono di una chitarra acustica fingerpicked, che intreccia arpeggi limpidi e accordi sospesi in una progressione meditativa secondo uno schema libero. I temi si ripetono e si trasformano senza mai esplodere, creando una tensione silenziosa ma costante che avanza fino ad un finale contemplativo. Con Desolate Ways, i Morbid Angel iniziarono ad evolversi con i vari interludi proposti negli album successivi, ma nessuno di essi è riuscito a lasciare il segno più di questo.
Patterns in the Ivy

Con gli Opeth, il discorso cambia decisamente. Nelle loro opere, si trovano tracce lunghe in cui si alternano sezioni di death metal intenso e altre più melodiche ed introspettive che, prese singolarmente, sarebbero perfetti intermezzi strumentali. In Blackwater Park, le sezioni senza cantato di Dirge for November o della title-track rispecchiano queste caratteristiche, ma il buon Mikael Åkerfeldt ha deciso di piazzare un brano a sé stante che, proprio come breve interludio, funziona benissimo: Patterns in the Ivy. La traccia ruota attorno a un arpeggio in tonalità minore che alterna accordi aperti e dissonanze leggere. Non ci sono percussioni, né voce: tutto si regge sull’equilibrio fra vuoto e risonanza, con l’ingresso del pianoforte verso la fine che crea una carica emotiva costante fino al finale criptico. Un attimo di pura introspezione che, posta tra due tracce dalle forti sfuriate (The Funeral Portrait e Blackwater Park), rappresenta un respiro di pura quiete e riflessione.
Requiem

Che gli Opeth siano presenti due volte in questa categoria non è per niente una sorpresa. In quasi ogni album, gli svedesi hanno incluso almeno una traccia strumentale che ne attenua l’atmosfera: se ne contano una in Pale Communion (Goblin), due in Heritage (title-track e Marrow of the Earth), una in Deliverance e Damnation (For Absent Friends e Ending Credits) tre in My Arms, Your Hearse (prologo, epilogo e Madrigal) e due nel debutto Orchid. Entrambe sono molto diverse, essendo Silhouette un assolo di pianoforte e Requiem di chitarra acustica, ma tra le due, è proprio l’ultima a distinguersi come la più meditativa. Interamente costruita su arpeggi in Mi minore, alterna due chitarre acustiche in un dialogo malinconico, ricco di influenze folk e barocche. Privo di voce e batteria, il brano agisce come la quiete prima dell’esplosione finale, incarnando il principio estetico che diventerà distintivo della band. Motivo per cui questo intermezzo è più importante degli altri già citati.
Immortal Suffering

Tra tutte le tracce presenti in questa categoria, l’omonima degli Immortal Suffering è una delle gemme meno conosciute. I newyorkesi sono noti principalmente nella nicchia dello slam, essendo tra i precursori del genere, e da ciò si capisce perché questo brano sia sfuggito a tantissimi. Nel brutal death è difficile (se non raro) trovare degli intermezzi strumentali malinconici, soprattutto se si pensa a quello old school, più grezzo e saturo, ma gli Immortal Suffering sono stati dei veri visionari quando nel loro secondo EP, Eternal Damnation, ne hanno inserito uno del tutto singolare rispetto al resto dei brani. La traccia appare costruita su chitarre che adottano un timbro più morbido: meno palm‐muting, meno aggressività ritmica e più arpeggi. Il basso e la batteria non dominano, ma accompagnano, lasciando spazio all’atmosfera e non alla ferocia tecnica. Un episodio decisamente insolito, ma che funziona benissimo nella trama del disco.
The Mind’s Eye

Non poteva mancare all’appello un altro grande nome del melodic death metal. I Dark Tranquillity hanno una discografia ampia, ma di brani strumentali, all’interno delle loro opere, se ne trovano pochi. Uno dei migliori è Star of Nothingness, contenuto nell’EP Zero Distance, ma il più memorabile è sicuramente The Mind’s Eye. La traccia si apre con una chitarra pulita e fredda creando subito un’atmosfera suggestiva. Quando entrano le chitarre distorte, non puntano sull’impatto, ma su melodie intrecciate che ampliano la sensazione di inquietudine. La sezione ritmica resta controllata, favorendo il coinvolgimento emotivo senza mai travolgerlo, abbassando la tensione e chiudendo l’album con un respiro emotivo, a dimostrazione di come i Dark Tranquillity sappiano affiancare aggressività e riflessione con grande coerenza.
Hårgalåten

Chiudiamo il cerchio delle big three di Goteborg con gli In Flames che, come i concittadini, hanno deciso di inserire alcune strumentali nei loro lavori. Nel primo album Lunar Strain, ce ne sono addirittura due: Dreamscape e Hårgalåten, completamente diverse l’una dall’altra. Nella prima, la tensione rimane costante, dato che si presenta pesante come le altre, mentre la seconda, non includendo chitarre distorte e batteria, rappresenta una parentesi atmosferica all’interno dell’album. La chitarra, pulita nel riff, ruota attorno ad una melodia semplice e circolare, mentre il violino aggiunge un tocco folk e malinconico, richiamando le danze popolari scandinave e trasmettendo all’ascoltatore sensazioni più profonde. Non è di certo più introspettivo degli altri visti fin ora, ma il suo compito di fermare l’aggressività del disco per trasformarla in un respiro più intimo, lo porta egregiamente a termine.
Svieri Doroga

Oltrepassando il confine politico, ma non musicale, la prima band che viene in mente sono i Kalmah, una delle più importanti del filone melodic death finlandese. In una discografia composta da 9 album, uno dei momenti salienti è sicuramente Svieri Doroga, intermezzo inserito in The Black Waltz, che interrompe la carica dell’album con un’atmosfera contemplativa. Anche qui, le chitarre acustiche sono lo strumento dominante, con la batteria che, non troppo pesante, scandisce il ritmo accompagnandole egregiamente. La melodia ha un carattere folk e nostalgico, da ballata triste che fa immedesimare l’ascoltatore in un paesaggio gelido e desolato. Un brano cupo, avvolgente e meditativo che rivela senza filtri l’animo più profondo della band.


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