
Cosa ne sarebbe, oggi, di questo genere musicale senza la band, l’artista o, meglio ancora, l’icona che ne ha dato vita? Di personalità che hanno fatto la storia ce ne sono tante, e poi c’è Ozzy Osbourne che l’ha urlata, plasmata e trasformata in un inno per milioni di anime ribelli che ancora oggi, dopo la sua morte, riecheggia sempre più forte.
Con la sua risata da stregone e uno sguardo sempre un po’ perso tra le ombre, ha dato voce a una generazione in cerca di libertà, rabbia, identità. Ha lottato contro i demoni dentro e fuori di sé, è riuscito sempre a riscattarsi dai suoi momenti più bui e, come se non bastasse, è riuscito ad insegnare ai suoi discepoli una filosofia che, ancora oggi, non cessa di esistere.
Adolescenza e primi passi nella musica
John Michael Osbourne nacque il 3 dicembre 1948 a Marston Green per poi vivere ad Aston, un sobborgo operaio di Birmingham, città industriale dove l’aria era densa di fuliggine e sogni repressi. Cresciuto in una casa minuscola con cinque fratelli, ha sempre ricordato la sua infanzia come un periodo difficile. Il padre Jack lavorava in fabbrica di notte, mentre la madre Lilian faceva turni pesanti in una compagnia automobilistica.
A scuola, il giovane John era un emarginato. Soffriva di dislessia e disturbi dell’attenzione, che lo rendevano bersaglio di scherno. E infatti, già a 15 anni, la sua vita non era quella di un normale adolescente: abbandonò la scuola e iniziò a fare diversi lavori manuali, tra cui operaio edile, idraulico, attrezzista, operaio in una fabbrica di auto e macellaio.
Eppure, in quei giorni tormentati, si accese una scintilla: i Beatles. Quando sentì She Loves You alla radio, capì che la musica poteva essere una via di fuga. Ma prima, dovette affrontare situazioni spiacevoli: gli episodi di abusi da parte di coetanei, poi il breve periodo in carcere, in cui trascorse sei settimane per aver rubato un televisore da una casa vicina. Lì imparò che non era fatto per la vita “normale”, dalla quale poteva distaccarsi solo con quel mezzo che più lo aveva ispirato. Quello che poteva dargli una rivincita.

Fu negli anni successivi che cominciò a muovere i primi passi nel mondo della musica. Incoraggiato dal padre, che contribuì alla sua formazione, Ozzy provò a entrare in diverse band locali, trovando nei Rare Breed quella più adatta a lui. Il gruppo durò pochissimo, ma proprio qui accadde un avvenimento che, invece, entrerà nella storia: l’incontro con Geezer Butler, bassista della band, con cui fece subito amicizia.
Difatti, i due non si fermarono: Ozzy distribuì, in giro per Birmingham, degli annunci per entrare in una nuova band, e a questa chiamata risposero niente meno che Tony Iommi e Bill Ward. Il progetto fu subito accolto da tutti, anche da Butler che li seguì a ruota, formando nel 1968 una nuova band chiamata inizialmente Polka Tulk Blues Band, poi Earth.

In questa fase, proposero cover di brani blues rock, mescolati alla psichedelia, in giro per i locali del circondario, fin quando decisero di cambiare radicalmente: per distinguersi da tutti si accorsero che non erano solo le sonorità cupe e lente la chiave della svolta, ma anche un nome che potesse rispecchiarle.
Sì, perché quel suono non doveva più essere lo stesso che si sentiva in giro, doveva essere più pesante, doveva incutere paura. E Butler lo intuì quando vide un cinema in pieno sold-out per un film horror: la gente pagava per spaventarsi, e loro dovevano prenderne spunto. Fu così che, all’unanimità, i ragazzi si ispirarono al film I Tre volti della Paura di Mario Bava, che nel Regno Unito venne distribuito con il nome che scelsero per la band. Quello che è entrato nella leggenda.
La svolta con i Black Sabbath
Nel 1968, dunque, Birmingham vide nascere i Black Sabbath, che ormai decisi nella loro strada da intraprendere, composero il brano omonimo: cupo, lento, minaccioso, e con un uso massiccio del tritono, suonando completamente nuovo rispetto a ciò che circolava all’epoca.
Ma ciò che davvero segnò la storia della musica, accadde il 13 febbraio di due anni dopo: l’uscita del primo album, quello che riusciva ad esprimersi già dalla copertina emblematica.
Dietro quell’atmosfera lenta, cupa e a tratti inquietante, c’era l’inventiva di quattro ragazzi rivoluzionari, tra cui spiccava, non a caso, proprio il cantante. Se è vero che Geezer Butler diede alla band il concept, Tony Iommi il suo inconfondibile suono distorto e Bill Ward la sua impronta più pesante, Ozzy completava il cerchio più degli altri.
La sua voce era potente, espressiva, diretta, da cui traspariva anche la sua figura: il “frontman” nella sua definizione stretta, comprendendo l’estetica e l’attitudine. In fin dei conti, chi poteva interpretare testi come quelli meglio di lui? Ozzy portava con sé un passato pieno di cicatrici, e forse fu proprio quello a rendere così reale e viscerale il suono della band. Un suono che grazie alla sua voce, si rese unico e inedito.
Ozzy, a sua insaputa, era già diventato un’icona: il pubblico delle periferie, degli operai e dei giovani ribelli si identificò immediatamente nel suono dei Sabbath, ma anche nella sua figura, che ormai rappresentava un nuovo modo di vedere, di pensare, di fare musica.
Propsettive che la band confermò e migliorò con un ulteriore, nonché definitivo salto di qualità: il secondo album Paranoid. Rilasciato pochi mesi dopo il primo full-length, fu un successo planetario proprio grazie ad Ozzy, più sicuro, velenoso ed incisivo. La title track, scritta in 20 minuti “per riempire spazio”, divenne la canzone più famosa della band, assieme ad altri classici come Iron Man, Electric Funeral e l’immortale War Pigs che, per la prima volta, toccavano da vicino temi molto più seri, più apocalittici e meno romanzati.
Dopo l’impatto di Paranoid, i Black Sabbath non rallentarono. Il mondo li ascoltava a bocca aperta, mentre loro sembravano camminare su un filo teso tra genio e autodistruzione. E al centro di tutto, c’era sempre lui: Ozzy, il profeta sghembo e dannato. In Master of Reality e Vol. 4, per poi passare a Sabbath Bloody Sabbath, Sabotage e Technical Ecstasy, c’era sempre lui a completare il sound della sua band e a presentarlo a tutti per ciò che era, rispecchiando proprio la sua personalità.
I risultati furono eccellenti, soprattutto per l’evoluzione stilistica, ma in quegli anni, Ozzy divenne l’incarnazione dell’anti-star: amava la birra, odiava le interviste, sul palco sembrava posseduto, fuori dal palco, invece, un disastro ambulante, e tutto ciò grazie anche all’abuso di droghe. Periodo che, inevitabilmente, cambiò le sorti della band.
La carriera solista
Le tensioni interne alla band non mancarono, con Sabotage che fu l’album simbolo del periodo, e Technical Ecstasy che si allontanava dalle ideologie di Ozzy, sempre più alienato dalla direzione presa dalla band. Dopo la sua uscita temporanea nel 1977, rimpiazzato brevemente da Dave Walker, I Sabbath tornarono insieme per un ultimo disco: Never Say Die!. Ma la chimica era svanita, le sessioni erano tese, il suono disomogeneo… e Ozzy ormai era solo l’ombra di sé stesso.
Così, nel maggio 1979, i Sabbath comunicarono ufficialmente il suo allontanamento. La decisione, seppur dolorosa, fu presa da Tony Iommi per “salvare la band” dalla sua influenza divenuta ormai negativa.
A quel punto, Ozzy era convinto che la sua carriera fosse finita. Disilluso, perso e distrutto dalle droghe, passava le giornate in totale alienazione e senza alcuna voglia di ricominciare. Ma proprio quando tutto sembrava perduto, arrivò la figura che avrebbe cambiato tutto: Sharon Arden, sua futura moglie e manager, che non vide in lui un relitto, ma una leggenda in attesa di risorgere.

Con l’aiuto di Sharon e del padre Don Arden, all’epoca talent scout, Ozzy formò una nuova band, riuscendo a risollevarsi dopo un periodo buio. Ma ciò che fece davvero la differenza fu l’incontro con Randy Rhoads, giovane chitarrista prodigio ex Quiet Riot, con cui il legame diventò subito stretto. Ozzy non aveva trovato solo un amico, ma un nuovo partner creativo, che portò tecnica, melodia e innovazione, perfettamente in linea con il pensiero del suo collega.
Blizzard of Ozz (1980) ne fu una dimostrazione: un album che sembrava il frutto di un artista al massimo della forma, non di uno appena risorto dalle ceneri. Il disco fu un successo a 360 gradi grazie ai grandi classici come Crazy Train e Mr. Crawley, segnando l’inizio della seconda vita di Ozzy. Non era più solo l’ex cantante dei Black Sabbath, ma un nome a sé stante. E, cosa ancora più importante, era di nuovo all’apice.
L’anno dopo, Diary of a Madman consolidò il successo: il disco è più cupo, più orchestrale, e dimostra quanto Randy Rhoads fosse diventato essenziale nel sound di Ozzy. Brani come Flying High Again e Over the Mountain mescolano energia e malinconia, mentre la title track è drammatica e imponente.
Ma proprio mentre tutto sembrava andare nel verso giusto, avvenne l’inaspettato: il 19 marzo 1982, Rhoads morì in un incidente aereo. Per Ozzy fu una durissima batosta, tant’è che rientrò in una spirale di dolore e dipendenze da droghe. Ma nonostante ciò, trovò la forza di rialzarsi e di comporre nuova musica al fianco di nuovi e talentuosi chitarristi che lanciò nel mondo della musica.
Il primo di loro fu Jake E. Lee che, grazie al suo carisma, riuscì a dare nuova vitalità al sound della band in Bark at The Moon (1983) e The Ultimate Sin (1986) più leggeri e sperimentali. Il secondo, invece, fu Zakk Wylde, che esordì in No Rest for the Wicked (1988) dal suono ancor più duro e ispirato, simboleggiando una nuova, definitiva rinascita.
Ogni volta che tutti lo davano per finito, Ozzy tornava, sopravviveva e resisteva. Non era più solo un’icona, ma un simbolo di resilienza.
No More Tears (1991) lo mostrò al mondo intero: in brani come I Don’t Want to Change the World, Mama I’m Coming Home e Hellraiser, la sua attitudine cambiò, abbandonando in parte le atmosfere cupe degli anni ’80 e aprendosi a produzioni più pulite, melodie profonde e una scrittura più personale.
Questo album segnò uno spartiacque nell’esistenza di Ozzy, poiché da allora la sua figura crebbe non solo per le sue opere musicali e per la sua resilienza, ma anche come icona popolare, divantata famosa anche al di fuori di quella dimensione che lui stesso aveva creato.


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