Di band valide, nella scena underground italiana, ce ne sono a dismisura, ma ce n’è una in particolare che ha sorpreso l’audience con una proposta unica e sensazionale.

I Bedsore, nati nel 2018, sono riusciti a dare una forte scossa alla scena italiana ed internazionale grazie all’ultimo album Dreaming The Strife For Love, pubblicato lo scorso novembre tramite la 20 Buck Spin, che segna un netto upgrade del loro sound. Evoluzione naturale del primo Hypnagogic Hallucinations, questo secondo full-length mostra una massiccia componente progressive che, più marcata rispetto a quella death metal di base, punta alla trasposizione musicale del testo letterario Hypnerotomachia Poliphili, cuore concettuale del disco, riuscendoci egregiamente grazie alle varie soluzioni stilistiche che rendono l’opera suggestiva e introspettiva, trasportando l’ascoltatore in un’esperienza emotiva e sonora densa di contrasti e stratificazioni.

Nessuno meglio di Jacopo Gianmaria Pepe (voce, chitarre) e Stefano Allegretti (synth, mellotron, tastiere) potrebbe spiegare al meglio la composizione, il significato e le radici di questo lavoro, e l’occasione per approfondire tutti i suoi aspetti è finalmente arrivata.

Il logo della band

Ciao, ragazzi. Innanzitutto, vorrei che vi presentiate: come nasce la band e a cosa si riferisce il suo nome?

JACOPO: «I Bedsore nascono come come una band death metal con l’intento di creare qualcosa che sia a metà tra diversi generi. Oggi, questa premessa è diventata un qualcosa di più, nel senso che se prima potevamo definirci una band death metal, adesso in parte è anche provocatorio continuare a inserire quest’etichetta. Non perché non ci sentiamo più death metal, ma perché la componente metal è più vasta, attinge anche da altri filoni e, soprattutto, la parte sperimentale ha preso sempre più piede in quella che poi è diventata la formula definitiva. Per quanto riguarda il nome della band, volevamo un moniker che fosse “death metal” fino in fondo, perché siamo amanti di tutto il filone old school anni ’90 composto da band dai nomi molto crudi. Però, allo stesso tempo, ci piaceva la dualità tra le parole “bed” e “sore”, che se da un lato risale al significato arcaico dei termini, dall’altra racchiude un po’ quello che è il tema principale della band, che abbiamo esplorato attraverso la letteratura e le esperienze più personali: quello del sogno e dell’oscurità».

Con Hypnagogic Hallucinations avete trasmesso un forte impatto nella scena, soprattutto per l’approccio che avete scelto, dato che, pur partendo dal death metal di base, si nota già la componente prog. Quest’ultima, era un’idea maturata già da tempo o inizialmente volevate essere una band solo ed esclusivamente death metal?

JACOPO: «Come accennato poco fa, l’idea era già maturata da tempo. Poi, ovviamente, ci sono un sacco di fattori esterni con cui ti vai ad approcciare alla produzione di un disco. Durante la fase di produzione di Hypnagogic Hallucinations, non era nemmeno sicuro che avremmo realizzato un full-length: volevamo registrare un EP, poi si è aggiunto un altro brano, poi abbiamo visto che le cose funzionavano… e, a quel punto, ci trovavamo ad avere materiale per un lavoro più lungo, senza però avere il tempo di concepire un’opera più organica per dar sfogo a tutte le nostre influenze. E comunque, ti dirò, da una parte è stato un bene, perché un debutto può avere anche il rischio di non andare nella stessa direzione stilistica che si pensa, ed essendo ancorati al death metal, che è una forte componente del nostro sound, con questa prima release siamo rimasti comunque soddisfatti sebbene, guardando indietro, non posso paragonare questo disco a quello che è Dreaming The Strife for Love».

Nello split con i Mortal Incarnation, infatti, si è visto maggiormente quello switch che si è confermato in Dreaming the Strife for Love. Chi sono state le vostre maggiori ispirazioni?

STEFANO: «Lo split ha un po’ aperto le porte a quello che voleva essere il nostro sound definitivo. Con Hypnagogic Hallucinations avevamo già l’intenzione di dare al sound tutte le influenze della nostra cultura musicale, a partire dall’infanzia fino all’adolescenza, inglobando tutti gli ascolti che abbiamo integrato, a partire dal prog rock fino ai classici del metal. A livello di band specifiche, non saprei dare delle informazioni precise, ma sicuramente posso dire che c’è stata una grande influenza da parte di tutto il death metal sperimentale degli ultimi anni, dai Venenum fino ai Morbus Crohn, o comunque da quel filone che incorpora all’interno un death metal di carattere più trasversale che tende ad includere anche altri tipi di stili, ma ci siamo sempre sentiti influenzati anche da tutta quella corrente metal che non lo fosse al 100% nel suo sound. Nello split abbiamo avuto, forse per la prima volta, la possibilità di esprimerci in un lasso di tempo importante, con un brano di 16 minuti che mostra tutta una serie di di influenze che prima avevamo solamente accennato. È stato un banco di prova per l’album successivo, e alla fine così è stato».

L’uso di strumenti come mellotron, trombone, flauto e organo è sicuramente una scelta ambiziosa. C’è chi queste sonorità le mastica da sempre e percepisce l’ascolto più fluido, ma altri invece no. Sulla base di ciò, qual è il vostro obiettivo? Farvi percepire fluidi per essere ascoltati facilmente o farvi conoscere come una band dal sound complesso per essere compresi appieno?

STEFANO: «Diciamo, entrambe le cose e nessuna delle due: ci piace essere ricercati perché un certo tipo di musica va composto secondo quest’ottica. Le nostre esperienze personali di studio, ci portano ad avere una consapevolezza musicale di un certo tipo, a volte anche difficile da digerire. Ma, allo stesso tempo, non nego che ricerchiamo sempre una certa scioltezza da trasmettere all’ascolto, abilità che spesso in generi come il progressive death metal, o anche il technical, dove c’è molto lavoro cervellotico, a volte si perde. Noi cerchiamo di tenerci a metà fra una proposta che sicuramente ha bisogno di tempo per essere capita, ma che cerca di lasciare qualche aggancio all’ascoltatore per far sì che venga colpito visceralmente al momento perché, ripeto, sono importanti entrambe le due sfaccettature, altrimenti sarebbe un qualcosa di estremamente farraginoso. Il fatto che le orchestrazioni e gli arrangiamenti prevedano degli strumenti meno convenzionali all’interno del metal è sicuramente un qualcosa che viene, come dicevo, dai nostri background musicali incorporati a tutto il resto. È come un pittore che ha a disposizione una tavolozza ricca di colori e sa come utilizzarli, altrimenti ci ritroveremmo ad usare sempre le stesse solite formule che possono comunque funzionare, ma nel caso di Dreaming, ispirandosi ad un racconto antico e anche molto complesso, era necessario avere a disposizione una tavolozza timbrica importante, e proprio dai timbri, siamo partiti per cercare di ottenere questo risultato».

JACOPO: «La nostra priorità, infatti, è quella di trasmettere il messaggio che esprimiamo. Se pensiamo al progressive rock e, ancor di più, al progressive italiano, dietro alla complessità stilistica si cela sempre un messaggio forte, lo stesso che con Dreaming penso, e spero, siamo riusciti a trasmettere nella sua interezza. Nell’album c’è la volontà di dare forza a un’immagine o ad un concetto, ed è per questo che, a volte, i tecnicismi diventano secondari. Ecco perché Dreaming è un disco in cui il messaggio è la cosa più importante davanti a tutto il resto che, comunque, rimane sempre fondamentale».

Una scelta che non è passata inosservata, inoltre, è stata l’uso dell’italiano. Da dove nasce il bisogno, per voi, di esprimersi nella lingua madre? Credete che calzi di più con il vostro sound?

JACOPO: «Sicuramente, rispetto all’album precedente c’è stata una presa di coscienza nello sperimentare e nel maturare. Questo ci ha dato quella consapevolezza nel riflettere sui vari artisti che hanno percorso determinate strade, per poi prendere anche noi una determinata direzione. Ciò ha fatto sì che scegliessimo l’italiano, perché era l’unica scelta possibile con un concept di questo tipo. Inoltre, utilizzare l’italiano è una scelta bidirezionale, nel senso che oltre a renderci più distintivi, ci mette anche più a nostro agio, dandoci la possibilità di avere più confidenza nell’esprimere quello che vogliamo, ma è innegabilmente anche più vasta a livello di sfumature. D’altra parte, questo pone a livello internazionale una difficoltà in più, c’è un livello in più di ricerca che l’ascoltatore straniero deve fare, però sicuramente questo è parte del messaggio che volevamo proporre e, se non hai quella volontà di andare oltre, non è il disco che fa per te».
STEFANO: «Confermo. Dall’inglese è molto difficile riuscire a cogliere lo stesso significato delle liriche espresse in italiano, che tradotte potrebbero anche essere sminuite. Inoltre, essendo la nostra lingua madre, è comunque qualcosa che si padroneggia meglio e ci dà la possibilità di esprimere non solo sfumature di significato, ma anche di interpretazione, di teatralità che comunque in una lingua straniera, che sia l’inglese o che sia un’altra lingua, rimarrebbero estremamente difficili».

Passiamo all’aspetto concettuale. Il concept di Dreaming the Strife for Love è ispirato a Hypnerotomachia Poliphili, un testo che spiega un viaggio iniziatico e si basa sulla ricerca dell’amore platonico. Cosa vi ha colpito di quest’opera e cosa la rende il fulcro dell’album?

STEFANO: «L’ispirazione ci è arrivata da Timo Ketola, l’illustratore della cover del primo album, con il quale avevamo un rapporto molto diretto, essendo residente a Roma. Parlando con lui, anche al di fuori del rapporto professionale, ci ha suggerito una sorta di connessione fra la nostra musica e il nostro moniker con questo testo che, di fatto, segue un po’ il classico filone dell’amore cortese, diverso da quello carnale. Le liriche, quindi, si collocano in una dimensione completamente onirica, e il viaggio che viene intrapreso da Polifilo, il protagonista dell’opera, avviene in un sogno che lo proietta poi verso il raggiungimento di questo obiettivo. Ciò che ci ha ispirato maggiormente è stato il fatto che questo viaggio si compisse all’interno della dimensione del sogno, come se raccontasse l’inconscio ante litteram, perché quello che accade nella vicenda non è altro che il concept dell’amore ma all’interno di sé, cercando un miglioramento della propria condizione. Tuttavia, la visione onirica è anche affetta dal turbamento legato alle paure e alle fobie, e il senso di orrore che riaffiora da tutto ciò è dovuto alle visioni che accadono all’interno di questo sogno, che sono talmente tanto maestose che lasciano a bocca aperta e non permettono neanche di capire bene cosa abbiamo davanti. È un concept molto complesso da riassumere, racchiuso sicuramente nell’opera, ma che è influenzato anche da una ricerca personale».

JACOPO: «Ribadisco che, come spesso ci siamo detti tra di noi, l’opera era solo un pretesto per poter narrare qualcosa di molto più personale e molto più intimo, ma allo stesso tempo anche di universale, un messaggio preciso secondo cui chiunque di noi può narrare la sua storia: che sia l’amore, che sia una sfida personale, una difficoltà, l’idea di migliorarsi e di spingersi oltre nella vita, sia nelle piccole avventure che in quelle più importanti».

Hypnerotomachia Poliphili, l’opera che ha isprato Dreaming The Strife for Love

Sappiamo che quest’album lo avete prodotto tramite la 20 Buck Spin, un’etichetta che ultimamente si sta interessando a parecchie band talentuose. Come è stato entrare a far parte delle sue reclute e come si sta rivelando questo vostro percorso? Avete raggiunto un pubblico più ampio? Vi sentite più motivati per andare avanti?

JACOPO: «La possibilità di collaborare con la 20 Buck Spin ci ha spinto sempre di più ad andare in una direzione personale. Il fatto di avere un supporto da un’etichetta importante con un grande bacino d’utenza e con la capacità di promuovere un determinato prodotto in un certo modo, ci dà quella sicurezza. Poi, ognuno può vedere le cose in maniera diversa, ma per noi questa è stata un po’ la chiave per dire: “Ok, abbiamo un’idea, c’è qualcuno che crede in noi”, e questo ci ha dato la forza per spingerci ancora oltre».

Da ennesima band romana death metal che sta riscuotendo successo, quali sono le band vostre concittadine che apprezzate di più e con quale andreste in tour?

JACOPO: «Ci sono tantissime realtà interessanti qui a Roma che hanno fatto la storia della sua scena underground, come ad esempio gli Hideous Divinity, se mi riferisco ad un altro genere, o comunque tantissimi altri gruppi che sono ancora sulla cresta dell’onda. Però, se dovessi fare una menzione per una band, allora direi i Thecodontion. Loro sicuramente hanno un qualcosa in più in comune con noi: non solo siamo praticamente nati insieme, ma anche loro sono andati verso una sperimentazione, anche se di un altro tipo, quindi è giusto citare loro».

STEFANO: «Altra band con cui vorremmo sicuramente avere a che fare sono i Master Boot Record, che non sono esattamente dell’ambito death metal, ma anche la nostra proposta non lo è completamente. Quindi, ci piacerebbe collaborare con una band con questo tipo di visione, mentre i Thecodontion sono una nostra vecchia conoscenza, abbiamo anche registrato il loro materiale e abbiamo potuto assaggiarne la bellezza anche dal punto di vista del recording».

Alla luce dei risultati di Dreaming the Strife for Love, è questa la vostra identità definitiva oppure assisteremo a delle metamorfosi che vi permetteranno di svilupparvi sempre di più?

JACOPO: «Quella mostrata in Dreaming è la nostra personalità, è la formula che abbiamo sviluppato, che abbiamo perseguito e che siamo riusciti a raggiungere, ma un disco di 46 minuti non è sufficiente per dar sfogo alla nostra completa maturazione musicale. Dietro questo concetto ci potrebbero essere altri 3 o 4 dischi, ma ciò non vuol dire che saranno uguali, perché dietro un’idea musicale del genere ci possono essere tanti concetti e ci sono tante cose da dire. Musicalmente e non».
STEFANO: «Aggiungo che potrà esserci un qualcosa di diverso, magari dal punto di vista dell’esplorazione dei generi. Però credo una cosa, ovvero che saremo coerenti con quello che siamo stati finora, ma con tutta una serie di influenze che al momento non possiamo conoscere, e anche se le conoscessimo non avrebbe senso svelarle ora perché andrebbero di sicuro strutturate».

Ho potuto capire che siete dei fan dell’estetica e, essendo di Roma, che è una città stupenda con tante location che possono essere la cornice adatta al vostro concept e ai vostri concerti, dove vorreste arrivare a suonare in un posto che secondo voi è da Bedsore?

JACOPO: «È vero, siamo grandi fan dell’estetica, ma non è un qualcosa che sta davanti al lato musicale. Tuttavia, per noi sarebbe bello suonare in posti che potrebbero dare più valore al concept che esprimiamo. Ci sono miriadi di posti che ci hanno ispirato, sia a Roma che al di fuori. Un luogo ideale per noi sarebbe Piazza della Minerva, che ha ispirato proprio letteralmente il primo brano del disco, ma anche il bosco di Bomarzo, dove riecheggiano le tante immagini dell’opera. E anche Villa d’Este sarebbe una location fantastica per un nostro live».
STEFANO: «Andando un po’ più a nord c’è la Scarzuola, una grande villa novecentesca, o il labirinto della Masone a Fontanellato, vicino Parma. Questi sono altri esempi di location adatte alla nostra musica. D’altronde, per un concept così complesso è giusto anche che ci sia una cornice che lo supporti».

La locandina dell’imminente tour che i Bedsore terranno assieme ai Fulci

Sulla base di ciò, vorreste proiettare le immagini che raccontano del concept alle vostre spalle durante gli spettacoli dal vivo? Un po’ come fanno i Fulci, per intenderci.

STEFANO: «Potrebbe funzionare. Ci sono alcuni visual che si presterebbero bene in questa funzione, come ad esempio il video di Scars of Light, e recentemente abbiamo anche scoperto un corto ispirato proprio all’Hypnerotomachia Poliphili, intitolato Polia, che sarebbe interessante incorporarlo ai nostri show. Faremo sicuramente un qualcosa di organico».
JACOPO: «A differenza dello spettacolo dei Fulci, in cui l’esperienza è forte e intensa grazie a pellicole preesistenti, nel nostro caso ci sarebbe un lavoro di reinterpretazione di qualcosa di molto antico, con la trasposizione dal testo alle immagini, che richiederebbe un grande impegno. È un’idea molto interessante che ci è passata per la mente, ma che richiederebbe molto lavoro e andrebbe anche capito come realizzarla al meglio a livello visivo per essere coerenti con la nostra musica e con i nostri temi».

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