
Ci sono storie che vale la pena raccontare. Proprio come quella degli Skinflint, la band che ha fatto conoscere la scena metal del Botswana al di fuori dei suoi confini.
Il trio, formatosi a Gaborone nel 2006, è riuscito a farsi notare nel Vecchio e nel Nuovo Continente grazie ad una serie di album dalla proposta ben riconoscibile: un sound heavy mescolato a sonorità folk, con un concept che ruota attorno alle antiche tradizioni e mitologie africane.
Ma c’è un altro motivo che rende questa band diversa dalle altre. Il frontman Giuseppe Sbrana è di origini italiane: la sua famiglia, colma di musicisti, è emigrata in Botswana due generazioni prima, ponendo le basi per la nascita della scena estrema del Paese consolidatasi proprio grazie alla sua band.
Gli Skinflint hanno all’attivo 7 full-length, più uno nuovo imminente, che raccontano una carriera quasi ventennale fatta di sfide, crescita artistica e tanta ambizione. Nessuno, meglio di Giuseppe Sbrana, può raccontarli nella loro essenza, nel loro percorso e nei piani futuri. E l’occasione per scambiare due parole a riguardo è finalmente arrivata.

Ciao Giuseppe. È un vero piacere parlare con te. Ho visto che sei nato e cresciuto in Botswana, ma il tuo nome è di chiare origini italiane. Per iniziare, raccontaci delle tue origini familiari.
«Ciao Alessandro. Mio padre è di origini italiane, mentre mia madre è del Botswana».
Da dove viene la passione per il metal? C’è stato un motivo in particolare?
«Il mio defunto zio Ray era un eccellente chitarrista che suonava per i Nosey Road, ed era anche un grande fan di Jimi Hendrix. Lui mi ha introdotto nel blues, prestandomi alcuni dei suoi dischi di Hendrix che ho studiato e imparato a orecchio: mi chiudevo nella mia stanza e imparavo i riff e le strutture dei vari brani. Poi un giorno ho visto Paranoid in un piccolo negozio qui in Botswana e il nome dei Black Sabbath mi colpì. Ho ascoltato il disco e sono rimasto subito affascinato da War Pigs. Lo capivo, dato che avevo un background blues, ma suonava come un blues molto più pesante di quello che ero abituato ad ascoltare. Allora ho capito che il metal era il genere adatto a me».
Parliamo degli Skinflint. Cosa ti ha spinto a fondare la band e a cosa si riferisce il suo nome?
«Il nome non ha alcun significato in particolare, lo abbiamo scelto perché suonava bene. All’epoca reclutai mia cugina Alessandra Sbrana alla batteria e provammo diversi membri in formazione, finché non incontrai Kebonye Nkoloso ad un festival a Lobatse. Abbiamo discusso delle nostre idee e c’era molta chimica tra noi, tant’è che lo convocammo per un’audizione. Era perfetto per gli Skinflint e, in un attimo, si unì alla band. Da allora ci sono stati alcuni cambi di formazione alla batteria, incluso Mothusi Mahuri che ha dato un grande contributo. Ora abbiamo Cosmos Modisaemang, e lui completa la nostra formazione attuale».

Siete attivi dal 2006 e avete prodotto 7 album e 2 EP, dimostrando di essere una band solida. Quali sono stati gli aspetti positivi e negativi del vostro percorso?
«L’aspetto positivo è che avevamo una visione e l’abbiamo mantenuta. Vedere questa visione artistica prendere vita ci ha dato felicità, perché è stata molto più dura di quanto possa descriverlo. È già difficile far parte di una band metal, ma lo è ancor di più se vieni dal Botswana. Ci sono diverse ragioni per questo, inclusa la mancanza di locali che supportino la nostra musica, la logistica, l’assenza di promoter e le spese di viaggio molto alte, soprattutto nelle lunghe distanze. Tutto ciò che abbiamo fatto, dall’allestimento degli spettacoli, al suono, alla registrazione, lo abbiamo dovuto fare interamente da soli. Ma, nonostante le sfide, siamo orgogliosi della nostra scena metal: anche se piccola, i fan sono molto dedicati e appassionati. Inoltre, abbiamo la fortuna di aver potuto fare tournée in Africa, Europa e Stati Uniti. Suonare la nostra musica ai nostri fan in tutto il mondo è la sensazione più bella per noi. Il tour ci ha arricchito sia a livello musicale che personale, perché ci ha permesso di sperimentare nuove culture e incontrare persone straordinarie lungo il percorso. Penso che l’aspetto positivo più rilevante sia che queste sfide ci hanno insegnato a non dare mai nulla per scontato e a ricordarci da dove veniamo. È stato un viaggio lungo e difficile, attraverso tempi bui e momenti felici, ma siamo sopravvissuti grazie alla passione e all’amore che abbiamo per questa musica».
Ciò che trovo molto affascinante è il concept sulla mitologia africana. Potresti dire qualcosa a riguardo e magari fornire un po’ di background per coloro che non sono informati su questi temi?
«Mi è venuta l’idea di includere la mitologia africana nei testi della band perché l’Africa è un continente ricco di storia, miti e tradizioni. Mi ha infastidito profondamente il fatto che la maggior parte di questi racconti dell’Africa subsahariana fossero raramente coperti dai media. Dai libri, ai film, ai giochi e alla musica. C’era poco, se non niente, su di loro. Inoltre, anche qui nelle scuole non veniva insegnato molto a riguardo. La maggior parte del fantasy nei media mainstream erano solitamente figure fantasy di Tolkien che le persone copiavano. Non che sia un problema, ma c’era un intero altro mondo da esplorare. Il metal è stata per me la dimensione perfetta per raccontare queste storie, perché è un genere che spinge i confini e rompe gli stereotipi. Quindi ho incluso gli aspetti più oscuri di questi miti, tra demoni, streghe, vampiri e spiritualità, ma anche alcuni eventi storici. In tutto il lavoro della mia vita, questo è ciò di cui sono più orgoglioso, ed è diventato così parte integrante del suono e del concept della band che se rimuovi questi temi, allora rimuovi la ragione dell’esistenza degli Skinflint».
Alcuni dei vostri album, come Dipoko e Nyemba, hanno dei titoli molto particolari. A cosa si riferiscono? Avete mai considerato di usare una lingua locale, oltre all’inglese, per i vostri testi?
«“Dipoko” significa “spirito” o “fantasma” in lingua setswana, mentre “Nyemba” è un nome basato sulle pratiche di stregoneria nell’Africa occidentale. Usiamo alcune frasi e parole nella lingua locale della regione dei miti, ma i testi li scriviamo in inglese».
Non è molto usuale sentir parlare di band del Botswana, ma la sua scena metal si è fatta notare anche all’estero. La definiresti povera o attiva?
«Non penso che la nostra scena sia abbastanza grande, e molte band combattono per esibirsi. Il pubblico in generale non ha davvero accettato il metal in Botswana, molti ignorano la scena e alcuni la conoscono ma non se ne preoccupano. Siamo una comunità piccola, ma in compenso i fan sono molto appassionati. La maggior parte delle band suonano per amore e passione per la musica metal, e questo porta la scena a non arrendersi».
Alcuni dicono che gli Skinflint siano non solo la band principale della scena dell’Africa meridionale, ma anche i migliori interpreti dell’ “African Metal”. Come ci si sente ad essere considerati innovatori?
«È umiliante. Sapevamo di essere in svantaggio rispetto a molti gruppi del primo mondo, quindi abbiamo dovuto sfruttare il nostro ambiente e i nostri limiti per trasformarli in forza. Penso che alcune delle migliori innovazioni provengano proprio da questo tipo di difficoltà».
Dopo ormai quasi venti anni, siete arrivati ad una grande maturità stilistica e l’ultimo album Hate Spell lo dimostra pienamente. Quali sono i vostri piani per il futuro? Avete nuovi album in programma?
«Grazie. Al momento abbiamo appena registrato un altro album che uscirà quest’anno in tutto il mondo. Siamo anche onorati di tornare negli Stati Uniti a sostegno dei Soulfly tra ottobre e novembre».

Come ultima domanda ti chiedo: come sarebbe per voi suonare in Italia? E come la immagineresti un’esperienza simile?
«Abbiamo suonato in Italia per la prima volta in assoluto a maggio di quest’anno, nella data di Roma del nostro recente tour europeo. È stata un’esperienza emozionante per me. L’Italia è un paese così bello. Abbiamo adorato il cibo, le persone e i bellissimi luoghi che abbiamo visitato. Torneremo sicuramente in Italia e, la prossima volta, speriamo di incontrarti».
È stato un grande onore intervistarti, non solo per la tua musica, ma anche per la tua carriera e le tue origini. Da italiano, spero di incontrarti e di vederti ad un concerto qui nel mio Paese. Grazie ancora, Giuseppe, per aver dedicato del tempo per rispondere alle mie domande.
«Grazie a te per aver supportato gli Skinflint e il metal africano. Keep the fire burning!».


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