Il continente asiatico è grande, vario e ricco di culture diverse che cambiano in una manciata di miglia. Medio ed Estremo Oriente sono ben noti per le loro storie, ma se parliamo dell’Asia Centrale, il discorso è più complesso.

La regione, posta sull’antica Via della Seta, è per antonomasia il luogo più movimentato per lo scambio di merci, idee e popolazioni tra Asia e Europa. Nell’ultimo secolo è stata parte dell’Unione Sovietica ed oggi è suddivisa tra i Paesi con il suffisso “-stan”, che ospitano un numero di etnie enorme. Etnie che non solo conservano tradizioni millenarie, ma addirittura faticano a riconoscersi con l’attuale aggettivo di nazionalità, dato che discendono dai Cosacchi, dai Mongoli, dagli Uiguri e così via.

Insomma, un crocevia di popoli nomadi che si sono stanziati lì con tutte le loro usanze. E come tramandarle, se non anche con la musica? Ognuno di essi ha sviluppato un suo genere tipico con strumenti peculiari ma, ovviamente, c’è chi ha voluto unirlo con il metal, anche solo nei testi, per darne un profilo ben riconoscibile.

Darkestrah

I Darkestrah sono un gruppo musicale di Bishkek, capitale del Kirghizistan. Un luogo insolito, sicuramente, ma lo è ancor di più il loro sound: dal primo album Sary Oy (2004) fino all’ultimo Nomad (2024) hanno saputo unire un black metal epico a sonorità tipiche della zona, grazie a cordofoni caratteristici come il kyl kyyak, il komuz e il tar. Con testi che narrano delle leggende centroasiatiche, i Darkestrah fanno immergere l’ascoltatore in una dimensione storica parallela grazie anche ad un particolare canto difonico, chiamato sygyt, espresso perfettamente dalle cantanti Kriegtalith (in formazione fino al 2014) e Charuk Revan (attuale), le due principali frontwomen della band.

Kashgar

Altra band del Kirghizistan, e di Bishkek, sono i Kashgar. Il combo, in attività dal 2014, suona un blackened death metal abbastanza standardizzato, che non farebbe immaginare un sound, né una band folk. Ma basta leggere i testi per accorgersi del contrario: il loro primo (e finora unico) album, rilasciato nel 2016, ha solo 6 brani, nei quali la cultura e il folklore centroasiatico sprizzano da ogni dove. Il più lungo, Tyan-Shan/Batyr, già ne è un esempio, chiamandosi come la grande catena montuosa della regione in questione, ma anche il brano Erlik è ricco di riferimenti al dio da cui prende il nome e al culto locale del Tengrismo.

Ulytau

Gli Ulytau sono un trio del Kazakistan formato da Erjan Alimbetov, Maxim Kichigin e la violinista Asel Isaeva, nato nel 2001 grazie al produttore Kydyrali Bolmanov per unire la musica occidentale con quella locale. Il loro sound, completamente strumentale, unisce la dombra (strumento tipico kazako), il violino e tutto l’apparato strumentale del metal, con l’aiuto costante di session-men, per rifarsi a composizioni classiche e a ballad in piena tradizione kazaka. Nel loro album Jumyr-Kylysh (2006) ci sono infatti rimembranze di autori come Mozart, Bach e Vivaldi tramite Turkish March, Toccata and Fugue e Winter, ri-arrangiate in una versione neo-classica e ancor più virtuosa, come ci si aspetterebbe da chitarristi del calibro di Steve Vai o Yngwie Malmsteen. Immaginate, però, che provengano da Astana o da Almaty.

Tengger Cavalry

La Mongolia, nonostante sia considerata geograficamente come uno stato dell’Estremo Oriente, rispecchia molto di più le tradizioni dell’Asia Centrale per le etnie e le culture presenti. E molti sono anche i gruppi musicali che incarnano tutto ciò, tra cui i Tengger Cavalry. La storia della band è molto movimentata: è nata nel 2010 a Pechino, da musicisti per metà cinesi e per metà mongoli, per poi stabilirsi a New York e introdurre, nella loro formazione, anche componenti americani. Il gruppo è inattivo dalla morte del frontman Nature G. avvenuta nel 2019, ma nei suoi anni d’oro, di lavori ne ha fatti eccome. Si contano infatti 9 album e 2 EP, dall’heavy classico con forte accenno al death nelle vocals, e dipinto da atmosfere puramente folk grazie agli strumenti che utilizzano, tra cui l’igil, il topshur e il violino a testa di cavallo, simboli tradizionali della Mongolia. Questo tipo di folk metal non aveva mai fatto parlare molto di sé, ma i Tengger Cavalry sono stati indubbiamente i primi a riuscirci, attirando l’attenzione della Napalm Records che li scritturò per un breve periodo.

The Hu

Che si pronuncino o meno come i The Who, conta poco, l’importante è non confonderli. La band di Ulan Bator, nata nel 2016, si è mossa alla stessa maniera dei Tengger Cavalry, dal sound più leggero, ma con gli stessi strumenti tradizionali. Finora, i The Hu hanno realizzato solo due album: The Gereg (2019) e Rumble of Thunder (2022), colmi di tributi alla storia e alla cultura del loro Paese, in particolare a Gengis Khan, e di riscontro ne hanno avuto parecchio. Non solo sulle piattaforme digitali hanno superato il traguardo dei 50 milioni di streaming, ma si sono anche guadagnati la chiamata degli Iron Maiden per accompagnarli nel loro tour americano in programma il prossimo autunno.

Aravt

Gli Aravt sono un altro gruppo che porta in alto fieramente le tradizioni del proprio Paese. I musicisti di Ulan Bator suonano un death metal melodico influenzato dagli Amon Amarth, ma in chiave del tutto storica e mitologica. I due album, usciti nel 2015 e nel 2017, sono scritti e cantati interamente in lingua madre, il che li rende ancor più autentici dal punto di vista tradizionale. Tra le poche band che si sono imbattute in queste tematiche, loro sono i meno conosciuti, ma hanno più animo “folk” di quanto non sembri.

Lascia un commento